In questo articolo andiamo alla scoperta di un’arte lontana, fin troppo sconosciuta, ma a dir poco affascinante: l’arte tibetana
Il concetto di arte tibetana si riferisce, come è facilmente intuibile dal nome stesso, alla produzione artistica del Tibet e di altri territori dell’Himalaya, sia nel presente che nel passato, come il Bhutan, il Ladakh, il Nepal e il Sikkim. Questa forma d’arte è, innanzitutto, sacra, il che evidenzia l’importante influenza del Buddhismo tibetano sui popoli protagonisti di questa forma d’arte. Lo studio dell’arte tibetana deve partire prendendo in considerazione le varie influenze che hanno contribuito alla sua evoluzione nel corso dei secoli. Ma vediamo tutto quello che c’è da sapere a proposito dell’arte tibetana.
Tutte le caratteristiche, la storia e le curiosità sull’arte tibetana
La tradizione pittorica e scultorea tibetana ha le sue radici nel VII secolo d.C., quando il Buddhismo, insieme alle sue forme artistiche, fu introdotto per la prima volta in Tibet, proveniente dalle influenze delle culture confinanti dell’India, del Nepal, della Cina e dell’Asia Centrale. Nonostante un periodo di persecuzioni tra l’838 e il 942, la fede buddista conobbe una rinascita nel X secolo, diventando presto predominante e avviando un’epoca riconosciuta come fondamentale per la diffusione successiva della fede buddista. Durante i primi secoli di questo rinnovato interesse, molti monaci tibetani si recarono in India, patria del Buddhismo, per studiarne la religione, mentre alcuni studiosi indiani vennero invitati in Tibet per tenere conferenze e insegnamenti. Nonostante la vasta area geografica del Tibet e i suoi numerosi vicini, come India, Kashmir, Nepal, Birmania, Cina e Asia centrale, che hanno influenzato la diversità stilistica dell’arte buddista tibetana, nel tardo XI e all’inizio del XII secolo l’India Pala divenne la principale fonte di ispirazione artistica. Nel XIII secolo e oltre, gli artisti nepalesi furono commissionati per dipingere tangka e creare sculture per i mecenati tibetani. Nel XIV secolo, le influenze stilistiche provenienti da Nepal e Cina divennero predominanti, fondendosi poi in una sintesi tibetana nel XV secolo.
Nonostante la presenza di numerosi artisti monaci, vi erano anche artisti laici che si spostavano da monastero a monastero. È difficile attribuire uno stile particolare a un monastero o a una setta, poiché la maggior parte degli artisti rimaneva anonima e raramente firmava le proprie opere. Tuttavia, i loro nomi sono stati tramandati attraverso testi, murali nei monasteri e su alcuni tangka e bronzi. Oltre agli artisti tibetani, sono documentati anche artisti provenienti dall’India, Nepal, Asia centrale e Cina.
Molte sculture e dipinti venivano creati come strumenti per la pratica della meditazione buddista. L’immagine fisica di una divinità serviva a sostenere e stimolare la presenza mentale della divinità stessa nel fedele durante la meditazione. Queste immagini venivano anche commissionate per vari motivi, come celebrare nascite, commemorare defunti o invocare prosperità, salute e longevità. I buddisti credono che la commissione di tali immagini porti meriti sia al donatore che a tutti gli esseri senzienti. Inoltre, le immagini presenti nei templi e negli altari domestici ricordano ai laici che anche loro possono aspirare all’illuminazione.
Ma, come abbiamo detto a inizio articolo, per studiare l’arte tibetana è necessario prendere in considerazione le influenze che hanno modificato il suo sviluppo negli anni. Vediamo quali sono.
Influenza ellenica
Le campagne militari di Alessandro Magno portarono influenze artistiche greche nell’India del IV secolo a.C. La maestria nell’arte della scultura greca, influenzando i centri buddhisti situati nell’odierno Afghanistan e Pakistan, contribuì alla formazione di una nuova fusione artistica, conosciuta come greco-buddhismo. Prima di allora, la rappresentazione statuaria di Buddha non era standardizzata, ma grazie ai modelli greci, furono create statue di Buddha in bronzo e pietra per i templi.
Influenza buddhista Mahâyâna
Quando il Buddhismo Mahāyāna emerse come una scuola separata nel IV secolo a.C., si diede maggior risalto al ruolo dei bodhisattva, esseri compassionevoli che rinunciano al proprio ingresso nel nirvāna per aiutare gli altri. Fin dall’antichità, molti bodhisattva sono stati soggetto di rappresentazioni artistiche. Il Buddhismo tibetano, come discendente del Buddhismo Mahāyāna, ha ereditato questa tradizione. Un esempio di bodhisattva comunemente raffigurato nell’arte tibetana è la divinità Tchenrézi (Avalokitesvara) della scuola Gelugpa del Buddhismo, spesso rappresentata con mille braccia, ciascuna con un occhio al centro, simboleggiando la compassione universale e la capacità di ascoltare le preghiere degli esseri umani.
Influenza tantrica
In modo più specifico, il Buddhismo tibetano costituisce un ramo del Buddhismo tantrico, noto anche come Buddhismo Vajrayāna, in riferimento al simbolo prominente del vajra, il “diamante – Fulmine” (dorje in tibetano). Una caratteristica distintiva del Buddhismo tantrico è la rappresentazione delle divinità in pose corrucciate, spesso con espressioni arrabbiate e ornamenti di fiamme o teschi. Queste immagini non rappresentano altro che i Protettori (dharmapala in sanscrito), il cui aspetto minaccioso è in realtà una manifestazione del loro impegno nella difesa del dharma e delle pratiche tantriche specifiche utilizzate nel monastero, al fine di preservarle dall’alterazione.
Influenza Bön
La tradizionale religione sciamanica dell’Himalaya, conosciuta come Bön, arricchisce l’arte tibetana con un pantheon di divinità locali protettrici. Nei templi tibetani, noti come lhakhang, le statue di Buddha o di Padmasambhava sono spesso accompagnate da statue delle divinità tutelari locali, che solitamente appaiono in atteggiamenti severi o seri. Queste divinità negative erano una volta considerate responsabili di danni e malattie nella comunità locale. Tuttavia, dopo l’arrivo di Padmasambhava, queste forze negative furono sottomesse e ora servono il Buddha.
La pittura tibetana si è manifestata attraverso tre principali modalità espressive: i manoscritti miniati, le pitture murali e i dipinti su stoffa (thang-ka); ciascuna di queste forme artistiche era strettamente legata agli scopi e alle pratiche del Buddhismo.
La scultura, principalmente realizzata in metallo e in misura minore in legno, stucco e pietra, serviva principalmente come icona, fungendo da tramite tra l’uomo e la divinità. Questa funzione era evidenziata dal termine indigeno utilizzato per definire l’arte tibetana, tongdol (mthong-grol), che significa “liberazione spirituale attraverso la visione della divinità”.
Durante le cerimonie, si credeva che una divinità risiedesse nell’opera d’arte per scopi di venerazione e per comunicare con i fedeli tramite di essa. In pratica, la pittura e la scultura soddisfacevano una vasta gamma di esigenze spirituali, educative e sociali. Servivano, quindi, come punto focale visivo durante riti meditativi o cerimonie per ottenere benedizioni per sé stessi, per i propri maestri o per i propri cari.
Per i laici, spesso analfabeti, le opere d’arte fornivano descrizioni visive della dottrina buddhista. I ritratti erano testimonianze storiche e, soprattutto prima del XV secolo, commemoravano l’operato di carismatici prelati, incoraggiando un senso di appartenenza alla setta.
Le opere d’arte, quando realizzate in modo sfarzoso, riflettevano l’opulenza e lo status sociale del committente, che guadagnava meriti religiosi pubblici tramite la loro realizzazione. Le immagini erano invocate per ottenere assistenza in battaglia, nei commerci, nelle relazioni amorose e influenzavano tutti gli aspetti della vita umana.
I monasteri esercitavano un’influenza significativa sull’arte, poiché erano i principali mecenati. Un prelato, rappresentando il proprio monastero, determinava il soggetto dell’opera d’arte e garantiva che il pittore rispettasse le norme iconografiche, iconometriche e i precetti rituali.