Horror vacui, cos’è e che impatto ha avuto sull’arte?

“Horror Vacui” deriva dal latino e significa paura degli spazi vuoti. Mario Praz, un critico letterario, ha coniato il termine per descrivere l’atmosfera soffocante dell’arte Vittoriana

Se immaginiamo una pagina bianca, una casa vuota senza arredamento o un’agenda in cui non è stato segnato ancora nulla, possiamo provare sia frenesia oppure un senso di angoscia: in questo ultimo caso si tratta dell’horror vacui, concetto molto caro sia alla psicologia che alla storia dell’arte. Scopriamo insieme di cosa si tratta!

Horror vacui, che cos’è e perché si trova anche nell’arte

Horror vacui deriva dal latino e significa paura degli spazi vuoti: Mario Praz, un critico letterario, ha coniato il termine per descrivere l’atmosfera soffocante dell’arte Vittoriana: in quel periodo era comune ricorrere ad una sovrabbondanza di elementi per veicolare il messaggio di ricchezza, e per questo si voleva riempire anche lo spazio più piccolo in ogni tipo di decorazione.

In realtà esempi di horror vacui possono essere trovati anche in epoche più antiche e molto diverse tra loro: dagli oggetti dell’arte barbarica o longobarda al medioevo ellenico, dove gli spazi bianchi venivano riempiti con piccoli elementi decorativi in modo da non lasciare alcun “vuoto”.

Fu lo stesso Aristotele, in aperta polemica con la fisica democritea, il primo a sostenere che la natura rifugge il vuoto e quindi lo riempie costantemente, come un gas o un liquido che tendono a occupare tutti gli spazi che hanno a disposizione.

L’horror vacui in psicologia prende il nome di cenofobia e agorafobia e si riferisce alla sensazione di disagio provata quando ci si trova in grandi spazi aperti; disagio che, per persone particolarmente sensibili, può prendere la forma di una vera e propria angoscia.

L'horror vacui nell'arte è un fenomeno molto comune
L’horror vacui nell’arte è un fenomeno molto comune – Wikimedia Commons @Jean Duvet – Artepassante.it

 

L’horror vacui nell’arte si esprime in opere ed epoche molto diverse tra loro. Il filo conduttore è la volontà di riempire tutto lo spazio disponibile, fino all’ultimo centimetro. Un approccio molto lontano rispetto all’equilibrio tra pieni e vuoti che caratterizzava la Grecia classica e che rappresenta tuttora l’ideale canonico di eleganza.

L’horror vacui è il tratto caratteristico dell’arte barbarica e longobarda affermatasi in Europa fra la tarda antichità e l’alto Medioevo, in cui era consuetudine riempire meticolosamente lo sfondo con piccoli elementi decorativi.

Troviamo lo stesso principio – declinato in forme diverse – negli arabeschi e nei mosaici dell’arte islamica, o in alcune correnti artistiche dei nativi americani.

Sono ossessivamente ricoperte di intarsi e merletti le chiese gotiche del XII-XIII secolo (le stesse a cui si ispirerà poi Gaudì per la Sagrada Familia di Barcellona).

L’horror vacui viene messo ai margini nel Rinascimento, che gli preferisce l’armonia classica, ma ritorna in auge con il Barocco del Seicento, talmente eccessivo da apparire kitsch ai nostri occhi. Per ritrovare una simile estetica bisogna attendere fino alla seconda metà del Novecento con le tele di Jackson Pollock e i murali neo-pop di Keith Haring.

C’è molto horror vacui anche nei fumetti della corrente underground americana, con autori come Steve Clay WilsonRobert Crumb (“padre” di Fritz il gatto) e Robert Williams. Anche la celebre collana per bambini Dov’è Wally? fa dell’horror vacui la sua cifra stilistica.

Cosa c’entra l’arte con la psicologia? C’entra eccome perché l’arte dà forma al pensiero e alla base dell’horror vacui c’è un sottile senso di inquietudine che bene o male tutti abbiamo sperimentato ma, in soggetti particolarmente sensibili, può sfociare in una vera e propria fobia.

Ciascuno di noi, più o meno consapevolmente, sente il bisogno di rifugiarsi in un ambiente familiare. Ci sentiamo a nostro agio quando le nostre giornate si svolgono entro i binari prestabiliti, in un contesto noto in cui ci sentiamo accolti. Al contrario, il vuoto è spaventoso perché ci inghiotte, facendoci sentire piccoli, inermi e spaesati.

Il parallelo con l’arte ci porta a intendere questo vuoto in senso spaziale, ma in realtà può essere anche temporale: pensiamo per esempio alle interminabili giornate di lockdown che ci siamo affannati a riempire impastando pizza o organizzando aperitivi su Zoom, pur di avere l’impressione di essere impegnati.

Oppure questo vuoto può essere affettivo. L’horror vacui diventa così timore della solitudine, una condizione estremamente comune – e, in una certa misura, necessaria – che però la nostra società cerca a tutti i costi di ricacciare ai margini.

Figlia dell’horror vacui è l’agorafobia, disturbo di tipo ansioso catalogato nel manuale Msd e associato, nel 30-50% dei casi, anche a disturbo di panico. Si stima che circa il 2% delle donne e l’1% degli uomini abbiano vissuto almeno un episodio di agorafobia nel corso degli ultimi 12 mesi.

Ma quali sono le tipiche situazioni che scatenano ansia? Per esempio stare in coda alla cassa del supermercato, viaggiare a bordo di un autobus affollato, trovarsi assieme a decine di altre persone in un luogo chiuso (come un cinema, un teatro o un centro commerciale) o, viceversa, in uno spazio ampio e aperto come un parcheggio. In questi e altri contesti la persona agorafobica può sentire il battito accelerato, tremare e sudare freddo, avere i brividi, percepire un senso di confusione o vertigini. Nei casi più gravi può scoppiare a piangere, vomitare, svenire o avere un attacco di panico.

Siamo stati abituati a pensare al vuoto come a una mancanza, a qualcosa di vagamente sinistro da cui tenerci alla larga. In realtà, così come lo sfondo di un quadro è ciò che permette alle figure ritratte di risaltare, anche il vuoto è parte integrante della nostra vita.

Siamo abituati a riempirlo compulsivamente di distrazioni, un po’ come uno scultore barocco che adorna di statue la facciata di una chiesa, ma in realtà è nel silenzio che possiamo sentire davvero la nostra voce; è nella solitudine che possiamo sentirci in pace con noi stessi; è nei momenti di calma (o, perché no, di noia) che possiamo avvicinarci alle nostre autentiche inclinazioni, distinguendole da tutte quelle incombenze che risucchiano le nostre energie senza lasciarci niente in cambio.

A primo acchito l’idea può spaventare, ma cerchiamo di riappropriarci del vuoto e di accoglierlo come parte integrante della nostra identità. Il nostro equilibrio ne gioverà.

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