La fine della parabola dei Beatles è ricordata ancora oggi come uno dei momenti più funesti della storia della musica. Nonché terreno fertile per diverse teorie sullo scioglimento dei Fab Four.
È il 10 aprile del 1970, quando i giornali di tutto il mondo annunciano ufficialmente lo scioglimento del gruppo rock più famoso della storia della musica. A darne la comunicazione è Paul McCartney, in un’intervista rilasciata al Daily Mirror. I Beatles non ci sono più, e già da tempo i suoi membri hanno deciso di andare ognuno per la propria strada, intraprendendo carriere soliste e non solo. Questo storico evento segnò anche metaforicamente la fine degli anni Sessanta, che li vide nascere, crescere e divenire il fenomeno di costume che tutti noi conosciamo.
L’eredità culturale dei Quattro di Liverpool
Parlare del lascito dei Beatles richiederebbe ben più dello spazio di un articolo. Il loro impatto sulla società degli anni Sessanta nel mondo occidentale ha un’entità incalcolabile. Infatti, sebbene i Beatles siano ancora oggi oggetto di culto in tutto il Mondo, ci si sorprende ogni volta a pensare che la loro parabola sia durata appena 10 anni (8, a voler essere pedanti). Dal 1960 al 1970, con 23 album tra singoli e studio all’attivo e tre film (A Hard Day’s Night, Help!, The Magical Mystery Tour) i Fab Four hanno rivoluzionato non solo la musica rock, ma il costume di un’intera decade.
Si pensi alla moda, anche. Anzitutto l’iconico “caschetto alla Beatles” ideato dalla fotografa Astrid Kirkherr (nonché compagna del bassista della formazione originaria dei Beatles, Stuart Sutcliffe, morto ad Amburgo nel 1962). Poi, col successo, diverse case di moda iniziarono a inviare loro capi d’abbigliamento firmati, intuendo l’impatto pubblicitario esercitato dal gruppo.
E poi le sperimentazioni, i contatti con altre culture e con i loro strumenti musicali – specie l’India e il sitar. Di fatto, sono stati i Fab Four a lanciare una forma di turismo spirituale nella penisola, un fenomeno culturale che non si è ancora esaurito.
Ma ciò che i Beatles maggiormente ci hanno lasciato in eredità è il modo in cui oggi si fa musica dal vivo. Una pietra miliare, in questo senso, fu il successo allo Shea Stadium di New York nel 1965. Concerto che consacrò il concetto di “fan“, impersonato all’epoca da orde di ragazze urlanti. Senza contare l’uso strategico (e decisamente ante litteram) che i quattro hanno fatto dei video musicali. Un qualcosa che oggi si dà per scontato, ma che al tempo, nel corso del boom economico, rappresentò un’enorme sfida (vinta) e una rivoluzione di costume.
Di fatto, citando il compositore Aaron Copland, “Se volete conoscere gli anni Sessanta, ascoltate la musica dei Beatles“.
Beatles, 1970: l’annus horribilis del rock
Siamo nell’aprile del 1970. Gli anni Sessanta si sono appena conclusi, lasciandoci alle spalle la spensieratezza e il fermento di un’epoca rivoluzionaria e piena di una rinnovata vitalità. Un decennio spensierato e allo stesso tempo tumultuoso, che ha visto il benessere economico del secondo dopoguerra messo in discussione dai movimenti del Sessantotto.
Il 10 aprile del 1970 il Daily Mirror, noto tabloid britannico, dà l’annuncio di uno degli eventi più sconvolgenti del panorama mondiale all’epoca. Paul McCartney, membro fondatore nonché bassista e compositore di circa la metà dei brani della discografia beatlesiana, lascia il gruppo. “Paul is quitting the Beatles” (“Paul lascia i Beatles“) è il titolo della notizia che campeggia sulla copertina del Mirror, il quale ripubblicava un dattiloscritto firmato dallo stesso McCartney. Il comunicato rendeva noto che l’artista aveva deciso di abbandonare il gruppo “per ragioni personali e professionali”. La notizia rimbalzò su tutti i telegiornali, persino sul Tg2.
I pettegolezzi sulla fine del gruppo erano trapelati già dall’anno precedente. I quattro, si diceva, non si vedeva più tanto spesso in reciproca compagnia. Inoltre, le rispettive vite private stavano assorbendo loro più tempo di quanto avessero fatto in passato. Un’ulteriore sintomo di crisi, inoltre, fu il loro ultimo concerto, il “Rooftop concert“, tenutosi il 30 gennaio 1969 sul tetto della Apple Corps a Londra, al 3 di Savile Row. Da allora, i quattro non suonarono più insieme in pubblico.
Ma quali sono state le vere ragioni alla base di una scelta tanto drastica?
La prima ipotesi, furono le divergenze artistiche. Da una parte, la necessità espressa da Lennon nel voler sperimentare (già ravvisabile nel brano “Revolution 9“), specie dopo l’incontro con Yoko Ono. Una necessità che poco si conciliava con un approccio più pop dettato da McCartney. Ma anche dalla volontà di emergere di Harrison, da sempre considerato “il terzo uomo”, all’ombra del geniale duo Lennon-McCartney.
Uno dei motivi più accreditati riguarda invece il pomo della discordia per eccellenza: la gestione del denaro. In seguito alla morte dello storico manager Brian Epstein (avvenuta in circostanze sospette e improvvise nel 1967), i Fab Four si ritrovano in alto mare. Non solo per il legame affettivo che legava i Quattro al manager e amico, ma anche per decidere a chi affidare la gestione finanziaria del gruppo. McCartney propose lo studio Eastman di New York (avendo da poco intrecciato un legame sentimentale con la figlia del padrone, Linda). Gli altri tre si opposero, proponendo Allan Klein, che già curava gli affari dei Rolling Stones.
Altra ragione pare essere stato il rimaneggiamento da parte di Phil Spector di alcuni brani dell’album “Let it Be“, usciti appesantiti dall’uso massiccio del “wall of sound“. In particolare di “The Long and Winding Road“, scritta da McCartney. Di fatto, fu solo nel 2003 che emersero le registrazioni originali dei brani ritoccati da Spector.
La fine ufficiale del gruppo avvenne solo nel dicembre del 1970, quando dopo una sentenza del tribunale i Beatles furono ufficialmente dichiarati sciolti.
Da allora, i Quattro intrapresero le proprie carriere soliste. Nell’aprile dello stesso anno, uscì “McCartney I“; in settembre, “A sentimental journey” di Ringo Starr; a novembre il triplo “All things must pass” di Harrison e a dicembre “Plastic Ono Band” di John Lennon.
Yoko Ono: l’eterna colpevole dello scioglimento dei Beatles
Ogni fan dei Beatles, a prescindere da quale sia l’album o il Beatle preferito, ha qualcosa in comune. L’idea (espressa spesso in boutade) che, in fondo in fondo, la colpa della fine dei Quattro di Liverpool è imputabile a Yoko Ono. L’artista giapponese naturalizzata americana è – anche ingiustamente – passata alla storia non tanto per la sua produzione artistica, quanto piuttosto per il rapporto con John Lennon. Secondo molti, infatti, la donna aveva un ascendente particolarmente forte sul membro del gruppo. Agli occhi dei Fab Four, Lennon ormai rimetteva ogni giudizio a Yoko.
Ono ha rappresentato per anni la figura della donna manipolatrice, tanto potente da aver messo fine all’esistenza del gruppo rock più influente della storia. Fortunatamente, la sua figura è stata riabilitata. Infatti, per quanto lo stesso McCartney abbia affermato in passato che Ono fosse un’interferenza in studio, oggi sappiamo che le ragioni dello scioglimento dei Beatles furono molteplici. Ma si sa, alcune convinzioni sono dure a morire.
I rapporti tra Ono e i due Beatle superstiti (McCartney e Starr) oggi sono più distesi che in passato, e i tre collaborano attivamente in molti eventi sui Fab Four. Perché i tempi cambiano, ma la musica dei Beatles è qualcosa che continua e che continuerà a segnare il percorso musicale e i gusti di oggi e di domani.